III

I tedeschi sono peggio delle guardie municipali. Con le guardie, se non altro, ci si poteva mettere a scherzare, dire: – Se mi lasciate libero vi faccio andare a letto gratis con mia sorella.

Invece i tedeschi non capiscono quello che si dice, i fascisti sono gente sconosciuta, gente che non sa nemmeno chi è la sorella di Pin. Sono due razze speciali: quanto i tedeschi sono rossicci, carnosi, imberbi, tanto i fascisti sono neri, ossuti, con le facce bluastre e i baffi da topo.

Nel comando tedesco, al mattino, il primo a essere interrogato è Pin. Di fronte a lui sono un ufficiale tedesco con la faccia da bimbo e un interprete fascista con la barbetta. Poi, in un angolo, il marinaio e, seduta, la sorella di Pin. Tutti hanno l’aria seccata: a quanto pare il marinaio, per una pistola rubata, deve aver montato tutta una storia, forse perché non l’incolpino d’essersela lasciata prendere, e deve aver raccontato molte cose false.

Sul tavolo dell’ufficiale c’è il cinturone, e la prima domanda rivolta a Pin è: come mai avevi in mano questo? Pin è mezzo addormentato: hanno passato la notte sdraiati sul pavimento d’un corridoio e Miscèl il Francese s’è messo vicino a lui e ogni volta che Pin stava per prender sonno Miscèl gli dava una gomitata forte da fargli male, e gli diceva in un soffio: – Se parli ti facciamo la pelle.

E Pin: – Crepa.

– Neanche se ti battono, hai capito? devi dire una parola di noialtri.

E Pin: – Morissi.

– È inteso che se i soci non mi vedono tornare a casa fanno la pelle a te.

E Pin: – Ti venisse un cancro all’anima.

Miscèl è uno che prima della guerra lavorava in Francia negli alberghi e se la passava bene, anche se ogni tanto gli dicevano macaronì o cochon fassiste; poi nel ’40 hanno cominciato a metterlo in campo di concentramento e d’allora in poi tutto è andato di traverso: disoccupazione, rimpatrio, malavita.

Le sentinelle a un certo punto si sono accorte di quel parlottare tra Pin e il Francese e hanno portato via il ragazzo perché era il principale indiziato e non doveva comunicare con nessuno. A Pin non è riuscito di dormire; a essere picchiato c’era abituato e non gli faceva tanta paura, ma quello che lo tormentava era un dubbio sull’atteggiamento da prendere nell’interrogatorio: da una parte avrebbe voluto vendicarsi di Miscèl e di tutti gli altri e dire subito ai comandanti tedeschi che la pistola l’aveva data a quelli dell’osteria e che c’era anche il gap; ma fare la spia era un altro atto irreparabile come rubare la pistola, voleva dire non più farsi pagare da bere all’osteria, cantare e stare a sentire cose sconce. E poi forse ci sarebbe andato di mezzo Comitato, sempre così triste e scontento, e questo a Pin sarebbe rincresciuto perché Comitato era l’unica persona buona in mezzo a tutti loro. Pin ora vorrebbe che Comitato arrivasse, chiuso nel suo impermeabile, entrasse nell’ufficio degli interrogatori e dicesse: «Gli ho detto io di prendere la pistola». Questo sarebbe un bel gesto, degno di lui e nemmeno gli succederebbe niente, perché proprio nel momento in cui gli esse-esse farebbero per imprigionarlo si sentirebbe come al cinematografo: «Arrivano i nostri!» ed entrerebbero di corsa gli uomini di Comitato a liberare tutti.

– L’ho trovato, – risponde Pin all’ufficiale tedesco che gli ha chiesto del cinturone. Allora l’ufficiale solleva il cinturone e gli dà una frustata a una guancia con tutte le sue forze. Pin a momenti va per terra, sente come un volo d’aghi che gli si conficcano nelle lentiggini, e il sangue scorrergli per la guancia già gonfia.

La sorella dà un grido. Pin non può fare a meno di pensare a quante volte lei l’ha picchiato, forte quasi come adesso, e che è una bugiarda a far tanto la sensibile. Il fascista conduce via la sorella, il marinaio attacca un discorso tedesco complicato indicando Pin, ma l’ufficiale lo fa star zitto. Chiedono a Pin se non si è deciso a dir la verità: chi l’ha mandato a rubar la pistola?

– La pistola l’ho presa per sparare a un gatto e poi restituirla, – dice Pin ma non gli riesce di fare la faccia ingenua, si sente tutto gonfio e ha una voglia lontana di carezze.

Una nuova frustata sull’altra guancia, meno forte però. Ma Pin, che si ricorda del suo sistema con le guardie municipali, dà un grido straziante prima ancora che la cinghia l’abbia toccato, e non la smette più. Comincia una scena in cui Pin salta urlando e piangendo per la stanza e i tedeschi lo rincorrono per acchiapparlo o per dargli frustate, e lui grida, frigna, insulta e risponde alle domande che continuano a fargli con risposte sempre più inverosimili.

– Dove hai messo la pistola?

Ora Pin può anche dire la verità: – Alle tane dei ragni.

– Dove sono?

Pin in fondo preferirebbe essere amico con questi uomini; anche le guardie municipali gliele suonano sempre e poi si mettono a scherzare su sua sorella. Se ci si mettesse d’accordo sarebbe bello spiegare a costoro dove fanno il nido i ragni e che loro s’interessassero e venissero con lui, che mostrerebbe loro tutti i posti. Poi andrebbero insieme all’osteria a comprare del vino e poi tutti in camera di sua sorella a bere, fumare e vederla ballare. Ma i tedeschi e i fascisti sono razze imberbi o bluastre con cui non ci si può intendere, e continuano a picchiarlo e Pin non dirà mai loro dove sono i nidi di ragno, non l’ha mai detto agli amici, figuriamoci se lo dice a loro.

Piange, invece, un pianto enorme, esagerato, totale come il pianto dei neonati, misto a urli e imprecazioni e a pestate di piedi che lo si sente per tutto il casamento del comando tedesco. Non tradirà Miscèl, Giraffa, l’Autista e gli altri: sono i suoi veri compagni. Pin ora è pieno d’ammirazione per loro perché sono nemici di quelle razze bastarde. Miscèl può star sicuro che Pin non lo tradirà, di là certo sentirà i suoi gridi e dirà: «Un ragazzo di ferro, Pin, resiste e non parla».

Difatti il baccano piantato da Pin si sente dappertutto, gli ufficiali degli altri uffici cominciano a essere seccati, al comando tedesco c’è sempre un viavai di gente per permessi e forniture, non è bene che tutti sentano che loro battono anche i bambini.

L’ufficiale con la faccia infantile riceve l’ordine di smettere l’interrogatorio; continuerà un altro giorno e in altra sede. Ma far stare zitto Pin adesso è un problema. Loro vogliono spiegargli che tutto è finito ma Pin copre la loro voce coi suoi strilli. Gli si avvicinano in molti, per calmarlo, ma lui scappa e si divincola e raddoppia i piagnistei. Fanno entrare sua sorella che lo consoli e lui a momenti le salta addosso per morderla. Dopo un po’ c’è un gruppetto di militi e di tedeschi attorno a lui che cercano di rabbonirlo, qualcuno gli fa una carezza, qualcuno cerca d’asciugargli le lacrime.

Alla fine, stremato, Pin si cheta, ansimando senza più voce in gola. Ora un milite lo condurrà alla prigione e domani lo riaccompagnerà all’interrogatorio.

Pin esce dall’ufficio col milite armato che lo segue; ha la faccia piccola piccola sotto l’ispido dei capelli, gli occhi strizzati e le lentiggini lavate dal pianto.

Sulla porta incontrano Miscèl il Francese che esce, libero.

– Ciao, Pin, – dice, – vado a casa. Prendo servizio domani.

Pin lo smiccia con gli occhietti rossi, a bocca aperta.

– Sì. Ho fatto domanda per la brigata nera. Mi hanno spiegato i vantaggi, lo stipendio che si piglia. Poi, sai, nei rastrellamenti puoi girare per le case a perquisire dove vuoi. Domani mi vestono e mi armano. In gamba, Pin.

Il milite che accompagna Pin alla prigione ha il berrettino nero col fascio rosso ricamato sopra: è un ragazzotto basso basso, con un moschetto più alto di lui. Non appartiene alla razza bluastra dei fascisti.

Già da cinque minuti camminano e ancora nessuno dei due ha detto niente.

– Se vuoi ti ci fanno entrare anche te nella brigata nera –, dice il milite a Pin.

– Se voglio entro nella… di quella vacca della tua bisnonna, – gli risponde Pin senza scomporsi. Il milite vuol far l’offeso:

– Di’, oh, con chi ti credi? Di’, oh, chi t’ha insegnato? – e si ferma.

– Dài, portami in galera, sbrigati, – lo tira Pin.

– E cosa ti credi, che in galera vai a star tranquillo? Tutti i momenti ti fanno andare all’interrogatorio e ti gonfiano dalle botte. Ti piace pigliar le botte?

– A te invece piace essere in… – fa Pin.

– A te, – fa il milite.

– A te, a tuo padre e a tuo nonno, – fa Pin.

Il milite è un po’ tonto e ci rimane male tutte le volte.

– Se non vuoi che ti picchino, entra nella brigata nera.

– E poi? – fa Pin.

– E poi fai i rastrellamenti.

– Tu li fai i rastrellamenti?

– No. Io sono piantone al comando.

– Ma va’. Chissà quanti ribelli hai ammazzato e non lo vuoi raccontare.

– Ti giuro. Mai stato in un rastrellamento.

– Mai tranne quelle volte che c’eri.

– Tranne quella volta in cui m’han preso.

– Han preso anche te in un rastrellamento?

– Sì, è stato proprio un bel rastrellamento, proprio ben fatto. Pulizia completa. Anche me hanno preso. Ero nascosto in un pollaio. Proprio un bel rastrellamento.

Con Miscèl Pin è rimasto male non perché giudichi che ha compiuto una brutta azione, che sia un traditore. Solo lo irrita lo sbagliarsi tutte le volte e non poter mai prevedere quel che fanno i grandi. Lui s’aspetta che uno pensi in un modo, e invece quello pensa in un altro, con cambiamenti che non si possono mai prevedere.

In fondo anche a Pin piacerebbe essere nella brigata nera, girare tutto bardato di teschi e di caricatori da mitra, far paura alla gente e stare in mezzo agli anziani come uno dei loro, legato a loro da quella barriera d’odio che li separa dagli altri uomini. Forse, ripensandoci, deciderà d’entrare nella brigata nera, almeno potrà recuperare la pistola e forse potrà tenerla e portarla apertamente sulla divisa; e potrà anche vendicarsi dell’ufficiale tedesco e del graduato fascista con dei dispetti, per rifarsi in risate di tutti i pianti e gli urli.

C’è una canzone delle brigate nere che dice: E noi di Mussolini ci chiaman farabutti… e poi ci sono delle parole oscene: le brigate nere possono cantare canzoni oscene per le vie perché sono farabutti di Mussolini, questo è meraviglioso. Però il piantone è uno stupido e gli dà ai nervi, perciò lui risponde male a ogni cosa che dice.

La prigione è una grande villa d’inglesi requisita, perché nella vecchia fortezza sul porto i tedeschi hanno piazzato la contraerea. È una villa strana, in mezzo a un parco d’araucarie, che già prima forse aveva l’aria di una prigione, con molte torri e terrazze e camini che girano al vento, e inferriate che già c’erano da prima, oltre a quelle aggiunte.

Adesso le stanze sono adattate a celle, strane celle con il pavimento di legno e linoleum, con grandi camini di marmo murati, con lavabi e bidè turati da stracci. Sulle torrette stanno sentinelle armate e sulle terrazze i detenuti fanno la coda per il rancio e si sparpagliano un po’ per il passeggio.

Quando Pin arriva è l’ora del rancio e tutt’a un tratto si ricorda d’aver molta fame. Dànno una scodella anche a lui e lo mettono in coda.

Tra i detenuti sono molti renitenti alla chiamata alle armi e anche molti per reati annonari, macellatori clandestini, trafficanti in benzina e in sterline. I delinquenti comuni sono rimasti in pochi, ormai che nessuno dà più la caccia ai ladri; gente che aveva da scontare vecchie condanne, e non è più in età di chiedere l’arruolamento per avere il condono. I politici si distinguono per i lividi che hanno sulla faccia, per il modo come si muovono con le ossa rotte dagli interrogatori.

Anche Pin è un «politico», lo si vede subito. Sta mangiando la sua brodaglia, quando gli s’avvicina un ragazzo grande e grosso, con la faccia più gonfia e livida della sua e i capelli rasi sotto un berretto a visiera.

– T’hanno conciato bene, compagno, – dice.

Pin lo guarda, non sa ancora come deve trattarlo: – E te no? – dice.

Il testarapata fa: – A me ogni giorno mi portano all’interrogatorio e mi picchiano con un nervo di bue.

Lo dice con grande importanza come facessero un onore speciale per lui.

– Se vuoi la mia minestra tieni, – dice a Pin. – Io non posso mangiare perché ho la gola piena di sangue.

E sputa in terra una schiumetta rossa. Pin lo guarda con interesse: ha sempre avuto una strana ammirazione per chi riesce a sputare il sangue; gli piaceva molto vedere come fanno i tisici.

– Allora sei tisico, – dice al testarapata.

– Forse m’han fatto diventare tisico, – consente il testarapata con importanza. Pin ha dell’ammirazione per lui; forse diventeranno veri amici. E poi gli ha dato la sua minestra e Pin la gradisce molto perché ha fame.

– Se continua così, – dice il testarapata, – mi rovinano per tutta la vita.

Pin dice: – E tu perché non t’iscrivi nella brigata nera?

Allora il testarapata s’alza e gli pianta in faccia gli occhi tumefatti: – Di’, ma lo sai chi sono io?

– No, chi sei? – fa Pin.

– Hai mai sentito parlare di Lupo Rosso?

Lupo Rosso! e chi non ne ha sentito parlare? A ogni colpo incassato dai fascisti, a ogni bomba che scoppia nella villetta d’un comando, a ogni spia che sparisce e non si sa dove va a finire, la gente dice un nome sottovoce: Lupo Rosso. Pin sa anche che Lupo Rosso ha sedici anni, e prima lavorava alla «Todt» come meccanico: altri giovani che lavoravano nella «Todt» per avere l’esonero gliene hanno parlato, perché portava il berretto alla russa e parlava sempre di Lenin, tanto che l’avevano soprannominato Ghepeù. Aveva anche la mania della dinamite e delle bombe a orologeria e pareva che si fosse messo nella «Todt» per imparare come si fanno le mine. Finché un giorno il ponte della ferrovia è saltato in aria e Ghepeù non si è fatto più vedere alla «Todt»: stava sui monti e calava in città alla notte, con una stella bianca, rossa e verde sul berretto russo, e una grossa pistola. S’era fatto crescere i capelli lunghi e si chiamava Lupo Rosso.

Ora Lupo Rosso è davanti a lui, col berretto alla russa senza più la stella, la grossa testa rasa, gli occhi pesti, e sputa sangue.

– Sì: sei tu? – dice Pin.

– Io, – fa Lupo Rosso.

– E quando t’han preso?

– Giovedì sul ponte del Borgo: armato e con la stella sul berretto.

– E cosa ti fanno?

– Forse, – dice con la sua aria d’importanza, – mi fucilano.

– Quando?

– Forse domani.

– E tu?

Lupo Rosso sputa sangue per terra: – Chi sei tu? – chiede a Pin. Pin dice il suo nome. Ha sempre desiderato d’incontrare Lupo Rosso, Pin, di vederlo sbucare una notte nei vicoli della città vecchia, ma ne ha avuto sempre anche un po’ paura, per via di sua sorella che va coi tedeschi.

– Perché sei qui? – chiede Lupo Rosso. Ha quasi lo stesso tono perentorio dei fascisti che interrogano.

Adesso tocca a Pin darsi un po’ d’arie: – Ho portato via una pistola a un tedesco.

Lupo Rosso fa una smorfia favorevole, serio: – Sei in banda? – chiede. Pin dice: – Io no.

– Non sei organizzato? Non sei in un gap?

Pin è tutto contento di risentire quella parola: – Sì, sì, – dice, – gap!

– Con chi sei?

Pin ci pensa un po’ su, poi fa: – Con Comitato.

– Chi?

– Comitato, non lo conosci? – Pin vuol fare l’aria di superiorità ma non gli riesce bene. – Uno magro, con l’impermeabile chiaro.

– Tu racconti delle storie, il comitato sono in tante persone, che nessuno sa chi siano, e preparano l’insurrezione. Tu non sai proprio niente.

– Se nessuno sa chi siano non lo sai nemmeno tu.

A Pin non piace parlare con i ragazzi di quella età perché vogliono fare i superiori e non gli dànno confidenza e lo trattano come un bambino.

– Io lo so, – dice Lupo Rosso, – io sono uno del sim.

Un’altra parola misteriosa: sim! gap! Chissà quante parole così ci saranno: a Pin piacerebbe saperle tutte.

– So tutto anch’io, invece, – dice. – So che tu ti chiami anche Ghepeù.

– Non è vero, – dice Lupo Rosso, – non bisogna chiamarmi così.

– Perché?

– Perché noi non facciamo la rivoluzione sociale, ma la liberazione nazionale. Quando il popolo avrà liberato l’Italia, inchiodiamo la borghesia alle sue responsabilità.

– Come? – dice Pin.

– Così. Inchiodiamo la borghesia alle sue responsabilità. Me l’ha spiegato il commissario di brigata.

– Lo sai chi è mia sorella? – È una domanda che non c’entra, ma Pin ne ha basta di fare discorsi di cui non si capisce niente e preferisce entrare negli argomenti abituali.

– No, – fa Lupo Rosso.

– È la Nera di Carrugio Lungo.

– E chi è?

– Come chi è. Tutti la conoscono, mia sorella. La Nera di Carrugio Lungo.

È incredibile che un ragazzo come Lupo Rosso non abbia mai sentito parlare di sua sorella. Nella città vecchia anche i bambini di sei anni cominciano a parlarne e spiegano alle bambine com’è che fa quand’è a letto con gli uomini.

– Di’, non sa chi è mia sorella. Questa è buona…

Pin vorrebbe chiamare anche gli altri detenuti e cominciare a fare il buffone.

– Io le donne per ora non le guardo nemmeno, – dice Lupo Rosso. – Una volta fatta l’insurrezione, ci sarà tempo…

– Ma se ti fucilano domani? – dice Pin.

– Bisogna vedere, chi fa prima, se loro a fucilare me o io a fucilare loro.

– Come sarebbe a dire?

Lupo Rosso ci pensa un po’ su, poi si china all’orecchio di Pin: – Ci ho un piano che se mi riesce, prima di domani son scappato e allora tutti questi bastardi fascisti che mi hanno fatto del male la pagano uno per uno.

– Scappi, e dove vai?

– Al distaccamento vado. Dal Biondo. E prepariamo un’azione che se ne accorgeranno.

– Mi porti con te?

– No.

– Sii bravo, Lupo, portami con te.

– Mi chiamo Lupo Rosso, – precisa l’altro. – Quando il commissario m’ha detto che Ghepeù non andava bene, io gli ho chiesto come mi potevo chiamare, e lui ha detto: chiamati Lupo. Allora io gli ho detto che volevo un nome con qualcosa di rosso perché il lupo è un animale fascista. E lui m’ha detto: allora chiamati Lupo Rosso.

– Lupo Rosso, – dice Pin, – senti, Lupo Rosso: perché non vuoi portarmi con te?

– Perché sei un bambino, ecco perché.

Dapprincipio, per la questione della pistola rubata, sembrava che con Lupo Rosso si potesse diventare amici sul serio. Ma poi ha continuato a trattarlo come un bambino, e questo dà ai nervi. Con gli altri ragazzi di quella età, Pin può almeno far valere la sua superiorità parlando di come son fatte le donne, ma con Lupo Rosso quest’argomento non attacca. Pure sarebbe bello andare in banda con Lupo Rosso e fare grandi esplosioni per fare crollare i ponti, e scendere in città sparando raffiche contro le pattuglie. Forse più bello ancora che la brigata nera. Soltanto la brigata nera ha le teste da morto che sono molto più d’effetto delle stelle tricolori.

È una cosa che non sembra vera essere lì a parlare con uno che domani forse sarà fucilato, su quel terrazzo pieno d’uomini che mangiano abbovati in terra, tra comignoli che girano al vento e le guardie carcerarie sulle torrette con i mitra puntati. Sembra uno scenario incantato: tutt’intorno il parco con le ombre nere degli alberi d’araucaria. Pin ha quasi dimenticato le botte che ha preso, e non è ben sicuro che non sia un sogno.

Ma ora le guardie carcerarie li mettono in fila per farli tornare in cella.

– Dove sei di cella? – chiede Lupo Rosso a Pin.

– Non so dove mi metteranno, – dice Pin, – non ci sono ancora stato.

– M’interessa sapere dove sei, – dice Lupo Rosso.

– Perché? – fa Pin.

– Poi lo saprai.

A Pin fanno rabbia quelli che dicono sempre: poi lo saprai.

Tutt’a un tratto, nella fila dei detenuti che s’incamminano gli sembra di vedere una faccia conosciuta, molto conosciuta.

– Di’, Lupo Rosso, lo conosci quello là davanti, secco secco, che cammina in quella maniera?…

– È un detenuto comune. Lascialo stare. Sui detenuti comuni non c’è da fare assegnamento.

– Perché? Io lo conosco!

– Sono proletariato senza coscienza di classe, – dice Lupo Rosso.

[Fine dell’estratto da “Il sentiero dei nidi di ragno”]