Fiume asciutto

Ora, io mi ritrovai nel fiume asciutto. Già da tempo mi teneva un paese non mio, ove le cose anzi che farmisi a poco a poco più familiari, sempre più mi apparivano come velate da insospettate differenze: e nelle forme e nei colori e nelle reciproche armonie. Altre da quelle che avevo imparato a conoscere mi circondavano ora colline, con delicate curvature di declivi, e i campi pure e le vigne andavano i quieti declivi seguendo e le terrazze erte, s’abbandonavano in docili pendenze. Tutti nuovi erano i colori, come toni di un arcobaleno sconosciuto. Gli alberi, sparsi, sembravano sospesi, come piccole nubi, e quasi trasparenti.

Allora io m’accorsi dell’aria, di come essa si faceva concreta al mio sguardo, e mi riempiva le mani come io le protendevo in essa. E vidi me impossibile a conciliare con il mondo intorno, scosceso e calcinoso com’ero io dentro e con squarci di colore d’una vivezza quasi cupa, come urli o risate. E per quanto m’ingegnassi a mettere parole tra me e le cose, non mi riusciva di trovarne d’adatte a rivestirle; perché tutte le mie parole erano dure e appena scheggiate: e il dirle era come posare tante pietre.

Pure, se in me si veniva disviluppando qualche sopita memoria, questa era di cose non vissute ma di apprese: forse paesi non creduti visti sul fondo di antiche pitture, forse parole di antichi poeti incompresi.

In una tale fluida atmosfera io vivevo si può dire nuotando e sentivo via via smussarmisi gli attriti ed io dissolvermi, assorbito in essa. Ma a ritrovar me stesso, bastò che m’incontrassi nel vecchio fiume asciutto.

Mi muoveva – era estate – un desiderio d’acqua, religioso, quasi di un rito. Mi disponevo, scendendo tra le vigne quella sera, a un bagno sacro e la parola acqua, già per me sinonimo di felicità, si dilatava nella mia mente come nome ora di dea ora di amante. Me ne apparve il tempio sul fondo della valle, dietro una pallida sponda di arbusti. Era un grande fiume di sassi bianchi, pieno di silenzio.

Solo vestigio d’acqua, un rivolo strisciava in disparte, quasi di nascosto. A tratti l’esiguità del rigagnolo, tra pietre grandi precludenti l’intorno e rive di canneti, mi ritrasportava tra i noti torrenti e mi riproponeva alla memoria più strette e faticate valli.

Fu questo: e forse anche il contatto delle pietre sotto i miei piedi – rosi sassi del fondo dal dorso incrostato d’un velo d’alghe rattrappite – o l’inevitabile muovere dei miei passi, a balzi, da l’uno scoglio all’altro, o forse fu solo un rumore che fece la ghiaia, franando.

Sta il fatto che il divario tra me e i luoghi qui scemò e si compose: una sorta di fratellanza come di metafisica consanguineità mi legava a quel pietrame, fecondo solo di timidi, tenacissimi licheni. E nel vecchio fiume asciutto riconobbi un mio antico padre ignudo.

Così, noi andavamo per il fiume asciutto. Colui che si muoveva con me era un compagno di sorte, uomo dei luoghi, cui l’oscurità della pelle e del pelame che gli scendeva a barbe fino dalla schiena, unita a la tumidezza delle labbra e al profilo camuso, conferiva un grottesco sembiante di capotribù non so meglio se congolese o oceàno. Presentava egli un fiero e gagliardo aspetto e nel viso ancorché occhialuto e nel procedere contrastato però dalla goffa sbracatura di quei bagnanti improvvisati che eravamo. Benché casto nella vita come un quacchero, era all’incontro osceno come un satiro nei discorsi. Il suo accento era quanto di più aspirato e fumigante mi fosse mai stato dato d’intendere: parlava egli a bocca eternamente spalancata o piena d’aria emettendo, a sfogo continuo del carattere sulfureo, uragani d’improperi mai uditi.

Tali, noi risalivamo il fiume asciutto in cerca d’un allargamento della vena dove lavare i nostri corpi, lordi e stanchi che erano.

Ora, a noi che camminavamo per il grande ventre, a un’ansa, lo sfondo s’arricchì di nuovi oggetti. Su alti scogli bianchi, avventura per gli sguardi, sedevano due, tre, forse quattro signorine, in costume da bagno. Costumi rossi e gialli – anche azzurri, è probabile, ma di questo non ricordo: solo di rosso e di giallo abbisognavano i miei occhi – e cuffiette, come in una spiaggia alla moda.

Fu come il canto di un gallo.

Un verde palmo d’acqua correva lì vicino e arrivava ai calcagni; loro per bagnarsi vi si accoccolavano.

Ci arrestammo, divisi tra la letizia della vista, il morso dei rimpianti ch’essa ci destava, e la vergogna di noi brutti e ingaglioffiti. Poi avanzammo verso di loro che stavano con indifferenza considerandoci e azzardammo qualche frase, studiandole, come suole, più spiritose e banali che potessimo. Il compagno sulfureo secondò il gioco senz’entusiasmo con una sorta di timido riserbo.

Sta il fatto che dopo poco, stanchi e del nostro faticoso dire e del freddo rispondere di quelle, ci rimettemmo in cammino, dando libero corso a più agevoli commenti. E, a consolarci, bastava, custodito negli occhi, quel ricordo più che di corpi, di costumi da bagno gialli e rossi.

Talora un braccio della corrente, non fonda, si spandeva allagando tutto l’alveo; e noi, alte e inaccessibili essendo le rive, lo traversavamo coi piedi nell’acqua. Portavamo scarpe leggere, di tela e gomma e l’acqua ci correva dentro: e quando si tornava nell’asciutto i piedi ci guazzavano dentro ad ogni passo, con sbuffi e sciacquio.

Imbruniva. Il pietrame bianco s’animava di punti neri, saltanti: i gerini.

Dovevano aver messo le zampe allora allora, piccoli e coduti che erano, e sembravano non essersi ancora ben capacitati di quella nuova forza che, tratto a tratto, li sbalestrava in aria. Ogni pietra ne aveva uno, ma per poco, che quello saltava e un altro succedeva al suo posto. E poi che simultanei erano i balzi e poi che procedendo per il grande fiume altro non si vedeva che il pullulare di quella moltitudine anfibia, avanzante come un esercito senza limiti, un senso di sgomento mi si faceva dentro, quasi quella sinfonia in bianco e nero, quel cartone animato triste come un disegno cinese, paurosamente rendesse l’idea dell’infinito.

Ci si fermò a uno specchio d’acqua che prometteva spazio bastante a immergere tutto il nostro corpo; anzi, ad allungare qualche bracciata. Io m’immersi scalzo e spogliato: era un’acqua vegetale, putrida per un lento sfacelo di piante fluviali. Il fondo era viscido e melmoso: e innalzava, a toccarlo, torbide nuvole fino alla superficie.

Pure, era acqua; ed era bella.

Il compagno scese in acqua con scarpe e calze, solo lasciando a riva gli occhiali. Poi, poco compreso del lato religioso della cerimonia, prese ad insaponarsi.

Cominciammo così quella giuliva festa che è il lavarsi, quando esso è raro e difficile. Il laghetto che ci conteneva appena traboccava di schiuma e di barriti, come per un bagno di elefanti.

Sulle prode del fiume erano salici e arbusti e case con ruote da molino; e tale era la loro irrealtà, in confronto alla concretezza di quell’acqua e di quelle pietre, che il grigio della sera, infiltrandosi, dava loro l’aspetto di un arazzo stinto.

Il compagno si lavava i piedi, ora, in strana guisa: senza scalzarsi e insaponandosi scarpe e calze addosso.

Poi, ci asciugammo e ci vestimmo. Da una mia calza, nel raccoglierla, saltò fuori un gerino.

Sugli occhiali del compagno, posati a riva, doveva esser arrivata un’acquata. E – come se li mise – così gaio dovette apparirgli lo scompiglio di quel mondo, colorato dagli ultimi sprazzi del tramonto, visto attraverso un paio di lenti bagnate, che prese a ridere, a ridere, senza freno e a me che ne chiedevo ragione disse: «Vedo tutto un puttanaio!»

E, più lindi, con una tiepida spossatezza in corpo, al posto della sorda stanchezza di prima, ci accomiatammo dal nuovo amico fiume e ci allontanammo per una stradella che seguiva la riva ragionando delle cose nostre e di quando v’avremmo fatto ritorno, e tendendo gli orecchi, attenti a lontani suoni di tromba.