I

Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico.

Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli.

Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagro il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti.

– Pin! Già a quest’ora cominci ad angosciarci! Cantacene un po’ una, Pin! Pin, meschinetto, cosa ti fanno? Pin, muso di macacco! Ti si seccasse la voce in gola, una volta! Tu e quel rubagalline del tuo padrone! Tu e quel materasso di tua sorella!

Ma già Pin è in mezzo al carrugio, con le mani nelle tasche della giacca troppo da uomo per lui, che li guarda in faccia uno per uno senza ridere: – Di’ Celestino, sta’ un po’ zitto, bel vestito nuovo che hai. E di’, quel furto di stoffa ai Moli Nuovi, poi, non si sa ancora chi sia stato? Be’, che c’entra. Ciao Carolina, meno male quella volta. Sì, quella volta meno male tuo marito che non ha guardato sotto il letto. Anche tu, Pascà, m’han detto che è successo proprio al tuo paese. Sì, che Garibaldi ci ha portato il sapone e i tuoi paesani se lo son mangiato. Mangiasapone, Pascà, mondoboia, lo sapete quanto costa il sapone?

Pin ha una voce rauca da bambino vecchio: dice ogni battuta a bassa voce, serio, poi tutt’a un tratto sbotta in una risata in i che sembra un fischio e le lentiggini rosse e nere gli si affollano intorno agli occhi come un volo di vespe.

A canzonare Pin c’è sempre da rimettere: conosce tutti i fatti del carrugio e non si sa mai cosa va a tirar fuori. Mattina e sera sotto le finestre a sgolarsi in canzoni e in gridi, mentre nella bottega di Pietromagro la montagna di scarpe sfondate tra poco seppellisce il deschetto e trabocca in istrada.

– Pin! Macacco! Muso brutto! – gli grida qualche donna. – Mi risuolassi quelle ciabatte invece di starci ad angosciare tutto il giorno! È un mese che le avete lì nel mucchio. Lo dirò un po’ io al tuo padrone, quando lo metteranno fuori!

Pietromagro passa metà dell’anno in prigione, perché è nato disgraziato e quando c’è un furto nei dintorni finiscono sempre per mettere dentro lui. Torna e vede la montagna di scarpe sfondate e la bottega aperta senza dentro nessuno. Allora si siede al deschetto, piglia una scarpa, la gira, la rigira, la ributta nel mucchio; poi si prende la faccia pelosa tra le mani ossute, e sacramenta. Pin arriva fischiando e ancora non sa niente: ed ecco che si trova davanti Pietromagro con quelle mani già alte nell’aria e quelle pupille incorniciate di giallo e quella faccia nera di barba corta come pelo di cane. Grida, ma Pietromagro l’ha acciuffato e non lo molla; quando è stanco di picchiarlo lo lascia in bottega e s’infila all’osteria. Per quel giorno nessuno lo rivede.

La sera, ogni due giorni, dalla sorella di Pin viene il marinaio tedesco. Pin lo aspetta nel carrugio ogni volta mentre sale, per chiedergli una sigaretta; i primi tempi era generoso e ne regalava anche tre, quattro per volta. Prendere in giro il marinaio tedesco è facile perché lui non capisce e guarda con quella faccia quagliata, senza contorno, rasa fin sulle tempie. Poi, quando se n’è andato, gli si possono fare gli sberleffi dietro, sicuri che non si volta; è ridicolo visto di dietro, con quei due nastri neri che gli scendono dal berretto marinaio fino al sedere lasciato scoperto dal giubbetto corto, un sedere carnoso, da donna, con una grossa pistola tedesca poggiata sopra.

– Ruffiano… Ruffiano… – dice la gente a Pin dalle finestre, sottovoce perché con quei tipi è meglio non scherzare.

– Cornuti… Cornuti… – risponde Pin facendo loro il verso e ingozzandosi di fumo gola e naso, fumo ancora aspro e ruvido contro la sua gola di bambino, ma di cui bisogna ingozzarsi fino a farsi lagrimare gli occhi e tossire con rabbia, non si sa bene il perché. Poi, con la sigaretta in bocca, andare all’osteria e dire: – Mondoboia, chi mi paga un bicchiere gli dico una cosa che poi mi dice grazie.

All’osteria ci sono sempre gli stessi, tutt’il giorno, da anni, a gomiti sui tavoli e menti sui pugni che guardano le mosche sull’incerato e l’ombra viola in fondo ai bicchieri.

– Che c’è, – dice Miscèl il Francese. – Tua sorella ha ribassato i prezzi?

Gli altri ridono e picchiano pugni sullo zinco: – Te la sei presa questa volta, Pin, la risposta!

Pin è lì che lo guarda di sotto in su attraverso la frangia di capelli spinosi che gli mangia la fronte.

– Mondoboia, proprio come pensavo io. Guardate un poco, pensa sempre a mia sorella. Vi dico, non smette mai di pensarci: s’è innamorato. Di mia sorella s’è innamorato, che coraggio…

Gli altri ridono a gola spiegata e lo scappellottano e gli versano un bicchiere. Il vino non piace a Pin: è aspro contro la gola e arriccia la pelle e mette addosso una smania di ridere, gridare ed essere cattivi. Pure lo beve, tracanna bicchieri tutto d’un fiato come inghiotte fumo, come alla notte spia con schifo la sorella sul letto insieme a uomini nudi, e il vederla è come una carezza ruvida, sotto la pelle, un gusto aspro, come tutte le cose degli uomini; fumo, vino, donne.

– Canta, Pin, – gli dicono. Pin canta bene, serio, impettito, con quella voce di bambino rauco. Canta Le quattro stagioni.

Ma quando penso all’avvenir

della mia libertà perduta

vorrei baciarla e poi morir

mentre lei dorme… all’insaputa…

Gli uomini ascoltano in silenzio, a occhi bassi come fosse un inno di chiesa. Tutti sono stati in prigione: chi non è stato mai in prigione non è un uomo. E la vecchia canzone da galeotti è piena di quello sconforto che viene nelle ossa alla sera, in prigione, quando i secondini passano a battere le grate con una spranga di ferro, e a poco a poco tutti i litigi, le imprecazioni si quetano, e rimane solo una voce che canta quella canzone, come ora Pin, e nessuno gli grida di smettere.

Amo la notte ascoltar

il grido della sentinella.

Amo la luna al suo passar

quando illumina la mia cella.

Pin proprio in prigione non è mai stato: quella volta che volevano portarlo ai discoli, è scappato. Ogni tanto lo acchiappano le guardie municipali, per qualche scorribanda per le tettoie del mercato della verdura, ma lui fa impazzire tutto il corpo di guardia dagli strilli e dai pianti finché non lo liberano. Ma nella guardina dei vigili un po’ c’è stato rinchiuso, e sa cosa vuol dire, e perciò canta bene, con sentimento.

Pin sa tutte quelle vecchie canzoni che gli uomini dell’osteria gli hanno insegnato, canzoni che raccontano fatti di sangue; quella che fa: Torna Caserio… e quella di Peppino che uccide il tenente. Poi, a un tratto, quando tutti sono tristi e guardano nel viola dei bicchieri e scatarrano, Pin fa una piroetta in mezzo al fumo dell’osteria, e intona a squarciagola:

– E le toccai i capelli – e lei disse non son quelli – vai più giù che son più belli, – amor se mi vuoi bene – più giù devi toccar.

Allora gli uomini dànno pugni sullo zinco e la serva mette in salvo i bicchieri, e gridano «hiuù» e battono il tempo con le mani. E le donne che sono nell’osteria, vecchie ubriacone con la faccia rossa, come la Bersagliera, ballonzolano accennando un passo di danza. E Pin, col sangue alla testa, e una rabbia che gli fa stringere i denti, si sgola nella canzonaccia fino a lasciarci l’anima:

– E le toccai il nasino – e lei disse brutto cretino – vai più giù che c’è un giardino.

E tutti gli altri, battendo il tempo con le mani alla vecchia Bersagliera che ballonzola, fanno il coro:

– Amor se mi vuoi bene – più giù devi toccar.

Quel giorno il marinaio tedesco veniva su di cattivo umore. Amburgo, il suo paese, era mangiato dalle bombe ogni giorno, e lui aspettava notizie ogni giorno di sua moglie, dei suoi bambini. Aveva un temperamento affettivo, il tedesco, un temperamento da meridionale trapiantato in un uomo del mare del Nord. S’era riempito la casa di figlioli, e adesso, spinto lontano dalla guerra, cercava di smaltire la sua carica di calore umano affezionandosi a prostitute dei paesi occupati.

– Niente sigarette avere, – dice a Pin che gli è venuto incontro a dargli il gutentag. Pin comincia a smicciarlo di traverso.

– Ben, camerata, da queste parti anche quest’oggi, è la nostalgia, eh?

Ora è il tedesco a smicciare Pin; non capisce.

– Vieni da trovare mia sorella, per caso? – fa Pin, con noncuranza.

E il tedesco: – Sorella non in casa?

– Ma come, non lo sai? – Pin ha una faccia falsa che sembra allevato dai preti. – Non lo sai che l’hanno portata all’ospedale, poveretta! Malattia brutta, ma pare che adesso la curino, se presa in tempo. Certo che lei ce l’aveva già da un po’… In ospedale, ci pensi, poveretta!

La faccia del tedesco sembra latte quagliato: balbetta e suda: – O-spe-da-le? Ma-la-ttia? – Da una finestra dell’ammezzato s’affaccia il busto d’una giovane con la faccia equina e i capelli da negra.

– Non dargli retta, Frick, non dargli retta a quel senza vergogna, – grida. – Questa poi me la paghi, muso di macacco, manca poco e mi rovini! Vieni su, Frick, non dargli retta che scherzava, il diavolo che se lo porti!

Pin le fa uno sberleffo. – Te la sei presa una sudata fredda, camerata! – fa al tedesco e scantona per un vicolo.

A volte il fare uno scherzo cattivo lascia un gusto amaro, e Pin si trova solo a girare nei vicoli, con tutti che gli gridano improperi e lo cacciano via. Si avrebbe voglia d’andare con una banda di compagni, allora, compagni cui spiegare il posto dove fanno il nido i ragni, o con cui fare battaglie con le canne, nel fossato. Ma i ragazzi non vogliono bene a Pin: è l’amico dei grandi, Pin, sa dire ai grandi cose che li fanno ridere e arrabbiare, non come loro che non capiscono nulla quando i grandi parlano. Pin alle volte vorrebbe mettersi coi ragazzi della sua età, chiedere che lo lascino giocare a testa e pila, e che gli spieghino la via per un sotterraneo che arriva fino in piazza Mercato. Ma i ragazzi lo lasciano a parte, e a un certo punto si mettono a picchiarlo; perché Pin ha due braccine smilze smilze ed è il più debole di tutti. Da Pin vanno alle volte a chiedere spiegazioni su cose che succedono tra le donne e gli uomini; ma Pin comincia a canzonarli gridando per il carrugio e le madri richiamano i ragazzi: – Costanzo! Giacomino! Quante volte te l’ho detto che non devi andare con quel ragazzo così maleducato!

Le madri hanno ragione: Pin non sa che raccontare storie d’uomini e donne nei letti e di uomini ammazzati o messi in prigione, storie insegnategli dai grandi, specie di fiabe che i grandi si raccontano tra loro e che pure sarebbe bello stare a sentire se Pin non le intercalasse di canzonature e di cose che non si capiscono da indovinare.

E a Pin non resta che rifugiarsi nel mondo dei grandi, dei grandi che pure gli voltano la schiena, dei grandi che pure sono incomprensibili e distanti per lui come per gli altri ragazzi, ma che sono più facili da prendere in giro, con quella voglia delle donne e quella paura dei carabinieri, finché non si stancano e cominciano a scapaccionarlo.

Ora Pin entrerà nell’osteria fumosa e viola, e dirà cose oscene, improperi mai uditi a quegli uomini fino a farli imbestialire e a farsi battere, e canterà canzoni commoventi, struggendosi fino a piangere e a farli piangere, e inventerà scherzi e smorfie così nuove da ubriacarsi di risate, tutto per smaltire la nebbia di solitudine che gli si condensa nel petto le sere come quella.

Ma nell’osteria gli uomini sono un muro di schiene che non s’apre per lui; e c’è un uomo nuovo in mezzo a loro, tutto magro e serio. Gli uomini smicciano Pin che entra, poi smicciano lo sconosciuto e dicono qualche parola. Pin vede che tira aria diversa; ragione di più per farsi avanti a mani in tasca e dire: – Mondoboia, la faccia che ha fatto il tedesco dovevate vedere.

Gli uomini non rispondono con le solite uscite. Si voltano piano, a uno a uno. Miscèl Francese prima lo smiccia come se non lo avesse mai visto, poi dice, lento: – Sei una sporca carogna di ruffiano.

Il volo di vespe sulla faccia di Pin ha un guizzo subito spento, poi Pin parla calmo, ma con gli occhi piccoli: – Poi mi dici perché.

Il Giraffa volta un po’ il collo verso di lui e fa: – Vai via, noi con chi se la fa coi tedeschi non abbiamo nulla da spartire.

– Va a finire, – dice Gian l’Autista, – che diventerete pezzi grossi del fascio, tu e tua sorella, con le vostre relazioni.

Pin cerca di fare la faccia di quando li prende in giro.

– Poi mi spiegate il significato, – dice. – Io col fascio non ci ho mai avuto niente da spartire, nemmeno coi balilla, e mia sorella va con chi le pare e non dà fastidio a nessuno.

Miscèl si gratta un po’ la faccia: – Quando viene il giorno che cambia tutto, mi capisci? tua sorella la facciamo girare rasata e nuda come una gallina spennata… E per te… per te studiamo un servizio che non te lo sogni neppure.

Pin non si scompone ma si vede che dentro ci soffre e si morde le labbra: – Quando viene il giorno che diventate più furbi, – dice, – vi spiegherò come stanno le cose. Primo, che io con mia sorella non sappiamo niente l’uno dell’altro e il ruffiano lo andate a fare voi se ne avete voglia. Secondo, che mia sorella non va coi tedeschi perché tiene coi tedeschi, ma perché è internazionale come la crocerossa e alla maniera che va con loro poi andrà con gl’inglesi, i negri e tutti i sacramenti che verranno dopo –. (Questi son tutti discorsi che Pin ha imparato ascoltando i grandi, magari quelli stessi che ora parlano con lui. Perché ora tocca a lui spiegarlo a loro?) – Terzo, che io col tedesco tutto quel che ho fatto è stato scroccargli delle gran sigarette, e in cambio gli ho fatto degli scherzi come quello di quest’oggi che ormai m’avete fatto girar l’anima e non ve lo racconto più.

Ma il tentativo di sviare il discorso non attacca. Gian l’Autista dice: – Tempo di scherzare! Io sono stato in Croazia e lì bastava che uno scemo di tedesco andasse per donne in un paese che non se ne trovava più manco il cadavere.

Miscèl dice: – Un giorno o l’altro te lo facciamo trovare in un tombino, il tuo tedesco.

Lo sconosciuto che è stato tutto il tempo zitto, senz’approvare né sorridere, lo tira un po’ per una manica: – Non è il caso di parlar di questo adesso. Ricordatevi quel che v’ho detto.

Gli altri annuiscono e guardano ancora Pin. Che cosa possono volere da lui?

– Di’, – fa Miscèl, – hai visto che pistola ha il marinaio?

– Un boia di pistola, ha, – risponde Pin.

– Ben, – fa Miscèl, – tu ci porterai quella pistola.

– E come faccio? – fa Pin.

– T’arrangi.

– Ma come faccio se la porta sempre appiccicata al sedere. Pigliatela voi.

– Ben, dico: a un certo punto non se li toglie i pantaloni? E allora si toglie anche la pistola, sta’ sicuro. Tu vai e gliela prendi. T’arrangi.

– Se voglio.

– Senti, – fa il Giraffa, – non stiamo qui a scherzare. Se vuoi essere dei nostri ora sai cosa devi fare; se no…

– Se no?

– Se no… Lo sai che cos’è un gap?

L’uomo sconosciuto dà una gomitata al Giraffa e scuote il capo: sembra sia scontento del modo di fare degli altri.

Per Pin le parole nuove hanno sempre un alone di mistero, come se alludessero a qualche fatto oscuro e proibito. Un gap? Che cosa sarà un gap?

– Sì che lo so cos’è, – dice.

– Cos’è? – fa Giraffa.

– È quello che in… te e tutta la tua famiglia.

Ma gli uomini non gli dànno retta. Lo sconosciuto ha fatto loro cenno che avvicinino la testa e parla loro a bassa voce, e sembra che li sgridi di qualcosa, e gli uomini fanno cenno che ha ragione.

Pin è fuori di tutto questo. Ora se ne andrà senza dir niente, e di quella storia della pistola è meglio non se ne parli più, era una cosa senz’importanza, forse gli uomini l’hanno già dimenticata.

Ma Pin è appena alla porta quando il Francese alza la testa e dice: – Pin, allora per quella storia siamo intesi.

Pin vorrebbe riprincipiare a far lo scemo, ma improvvisamente si sente bambino in mezzo ai grandi e rimane con la mano sullo stipite della porta.

– Se no non ti far più vedere, – dice il Francese.

Pin ora è nel carrugio. È sera e alle finestre s’accendono i lumi. Lontano, nel torrente, cominciano a gracidare le rane; di questa stagione i ragazzi stanno la sera appostati intorno ai laghetti, ad acchiapparle. Le rane strette in mano dànno un contatto viscido, sgusciante, ricordano le donne, così lisce e nude.

Passa un ragazzo con gli occhiali e le calze lunghe: Battistino.

– Battistino, lo sai che cos’è un gap?

Battistino batte gli occhi, curioso: – No, dimmi: cos’è?

Pin comincia a sghignazzare: – Vallo un po’ a chiedere a tua madre cos’è il gap! Digli: mamma, me lo regali un gap? Diglielo un po’: vedrai che te lo spiega!

Battistino va via tutto mortificato.

Pin sale per il carrugio, già quasi buio; e si sente solo e sperduto in quella storia di sangue e corpi nudi che è la vita degli uomini.