II

In camera di sua sorella, a guardarci in quel modo, sembra sempre che ci sia la nebbia: una striscia verticale piena di cose con intorno l’offuscarsi dell’ombra, e tutto sembra cambi dimensioni se s’avvicina o s’allontana l’occhio dalla fessura. Sembra di guardare attraverso una calza da donna e anche l’odore è lo stesso: l’odore di sua sorella che comincia al di là della porta di legno ed emana forse da quelle vesti gualcite e da quel letto mai rifatto, rincalzato senza fargli prender aria.

La sorella di Pin è sempre stata sciatta nelle faccende di casa, fin da bambina: Pin faceva dei grandi pianti in braccio a lei, da piccolo, con la testa piena di croste, e allora lei lo lasciava sul muretto del lavatoio e andava a saltare con i monelli nei rettangoli tracciati col gesso sui marciapiedi. Ogni tanto tornava la nave del loro padre, di cui Pin ricorda solo le braccia, grandi, e nude, che lo sollevavano in aria, forti braccia segnate da vene nere. Ma da quando la loro madre è morta, le sue venute sono state sempre più rade, finché nessuno l’ha più visto; si diceva che avesse un’altra famiglia in una città di là dal mare.

Ora, per abitarci, Pin più che una camera ha un ripostiglio, una cuccia al di là d’un tramezzo di legno, con una finestra che sembra una feritoia, stretta e alta com’è, e profonda nello sbieco del muro della vecchia casa. Di là c’è la camera di sua sorella filtrata dalle fessure del tramezzo, fessure da farsi venire gli occhi strabici a girarli per vedere tutt’intorno. La spiegazione di tutte le cose del mondo è lì dietro quel tramezzo; Pin ci ha passato ore e ore fin da bambino e ci ha fatto gli occhi come punte da spilli; tutto quel che succede là dentro lui lo sa, pure ancora la spiegazione del perché gli sfugge e Pin finisce per aggomitolarsi ogni notte nella sua cuccetta abbracciandosi il petto. Allora le ombre del ripostiglio si trasformano in sogni strani, di corpi che s’inseguono, si picchiano e s’abbracciano nudi, finché viene un qualcosa di grande e caldo e sconosciuto, che sovrasta su di lui, Pin, e lo carezza e lo tiene nel caldo di sé, e questo è la spiegazione di tutto, un richiamo lontanissimo di felicità dimenticata.

Ora il tedesco gira per la camera in maglietta, con le braccia rosee e cicciose come cosce, e ogni tanto viene a fuoco della fessura; a un certo punto si vedono anche le ginocchia della sorella che girano per aria ed entrano sotto le lenzuola. Pin ora deve contorcersi per seguire dove viene posato il cinturone con la pistola; è lì appeso a una spalliera di seggiola come uno strano frutto e Pin vorrebbe avere un braccio sottile come lo sguardo da far passare nella fessura, per prendere l’arma e tirarla verso di sé. Ora, il tedesco è nudo, in maglietta, e ride: ride sempre quando è nudo perché ha un fondo d’animo pudico, da ragazza. Salta nel letto e spegne la luce; Pin sa che passerà un po’ di tempo così nel buio e in silenzio, prima che il letto cominci a gemere.

Ora è il momento: Pin dovrebbe entrare nella camera scalzo e carponi e tirare giù, senza far rumore, il cinturone dalla sedia: tutto questo non per fare uno scherzo e poi ridere e canzonare, ma per qualcosa di serio e misterioso, detto dagli uomini dell’osteria, con un riflesso opaco nel bianco degli occhi. Pure, a Pin piacerebbe essere sempre amico con i grandi, e che i grandi scherzassero sempre con lui e gli dessero confidenza. Pin ama i grandi, ama fare dispetti ai grandi, ai grandi forti e sciocchi di cui conosce tutti i segreti, ama anche il tedesco, e ora questo sarà un fatto irreparabile; forse non potrà più scherzare col tedesco, dopo questo; e anche con i compagni dell’osteria sarà diverso, ci sarà qualcosa che lo lega a loro su cui non si può ridere e dire cose oscene, e loro lo guarderanno sempre con quella riga diritta tra le sopracciglia e gli chiederanno a bassa voce cose sempre più strane. Pin vorrebbe sdraiarsi nella sua cuccetta e stare a occhi aperti e fantasticare, mentre il tedesco di là sbuffa e la sorella fa dei versi come per un solletico sotto le ascelle, fantasticare di bande di ragazzi che lo accettino come loro capo, perché lui sa tante cose più di loro, e tutti insieme andare contro i grandi e picchiarli e fare cose meravigliose, cose per cui anche i grandi siano costretti a ammirarlo ed a volerlo come capo, e insieme a volergli bene e a carezzarlo sulla testa. Ma invece lui deve muoversi nella notte solo e attraverso l’odio dei grandi, e rubare la pistola al tedesco, cosa che non fanno gli altri ragazzi che giocano con pistole di latta e spade di legno. Chissà cosa direbbero se domani Pin andasse in mezzo a loro, e scoprendola a poco a poco mostrasse loro una pistola vera, lucida e minacciosa e che sembra stia per sparare da sola. Forse loro avrebbero paura e anche Pin forse avrebbe paura a tenerla nascosta sotto il giubbetto: gli basterebbe una di quelle pistole per bambini che fanno lo sparo con una striscia di fulminanti rossi e con quella fare tanto spavento ai grandi da farli cadere svenuti e chiedergli pietà.

Invece ora Pin è carponi sulla soglia della stanza, scalzo, con la testa già al di là della tenda in quell’odore di maschio e femmina che dà subito alle narici. Vede le ombre dei mobili nella stanza, il letto, la sedia, il bidé bislungo con le gambe a trespolo. Ecco: dal letto ora comincia a sentirsi quel dialogo di gemiti, ora si può avanzare carponi badando di far piano. Però forse Pin sarebbe contento che il pavimento scricchiolasse, il tedesco sentisse e tutt’a un tratto accendesse la luce, e lui fosse obbligato a scappare scalzo con sua sorella dietro che gli grida: Porco! E che tutto il vicinato sentisse e se ne parlasse anche all’osteria, e lui potesse raccontare la storia all’Autista e al Francese, con tanti particolari da essere creduto in buona fede e da far dire loro: – Basta. È andata male. Non ne parliamo più.

Il pavimento scricchiola difatti, ma molte cose scricchiolano in quel momento e il tedesco non sente: Pin già è arrivato a toccare il cinturone, e il cinturone al contatto è una cosa concreta, non magica, e scivola giù dalla spalliera della sedia in modo spaventosamente facile, senza nemmeno battere contro terra. Adesso «la cosa» è successa: la paura finta di prima diventa paura vera. Bisogna aggomitolare in fretta il cinturone intorno alla fondina, e nascondere tutto sotto il maglione senza impastoiarsi braccia e gambe: poi tornare a quattro piedi sui propri passi, pian piano e senza mai togliere la lingua di tra i denti: forse se si togliesse la lingua di tra i denti succederebbe qualcosa di spaventoso.

Una volta fuori non c’è da pensare a tornare nella sua cuccetta, a nascondere la pistola sotto il materasso come le mele rubate al mercato della frutta. Tra poco il tedesco s’alzerà e cercherà la pistola e metterà tutto a soqquadro.

Pin esce nel carrugio: non è che la pistola gli bruci addosso; così nascosta nei suoi vestiti è un oggetto come un altro e ci si può dimenticare d’averla; spiace anzi questa propria indifferenza, e a ricordarsene Pin vorrebbe gli prendesse un brivido. Una pistola vera. Una pistola vera. Pin cerca di eccitarsi col pensiero. Uno che ha una pistola vera può tutto, è come un uomo grande. Può far fare tutto quello che vuole alle donne e agli uomini minacciando d’ucciderli.

Pin ora impugnerà la pistola e camminerà sempre con la pistola puntata: nessuno potrà togliergliela e tutti ne avranno paura. Invece ha sempre la pistola avvolta nel gomitolo del cinturone, sotto il maglione e non si decide a toccarla, spera quasi che quando la cercherà non ci sia più, si sia smarrita nel calore del suo corpo.

Il posto per guardare la pistola è un sottoscala nascosto dove ci si caccia per giocare a rimpiattino, e arriva un riverbero di luce da un lampione guercio. Pin svolge il cinturone, apre la fondina e con un gesto che sembra tiri un gatto per la collottola estrae la pistola: è davvero grossa e minacciosa, se Pin avesse il coraggio di giocarci farebbe finta che fosse un cannone. Ma Pin la maneggia come fosse una bomba; la sicura, dove avrà la sicura?

Alla fine si decide a impugnarla, ma bada a non mettere le dita sotto il grilletto, tenendo ben forte l’impugnatura; pure così si può impugnare bene e puntarla contro quello che si vuole. Pin la punta prima contro il tubo della grondaia, a bruciapelo sulla lamiera, poi contro un dito, un suo dito, e fa la faccia feroce tirando indietro la testa e dicendo tra i denti: «la borsa o la vita», poi trova una scarpa vecchia e la punta contro la scarpa vecchia, contro il calcagno, poi nell’interno, poi passa la bocca dell’arma sulle cuciture della tomaia. È una cosa molto divertente: una scarpa, un oggetto così conosciuto, specie per lui, garzone ciabattino, e una pistola, un oggetto così misterioso, quasi irreale; a farli incontrare uno con l’altro si possono fare cose mai pensate, si possono far loro recitare storie meravigliose.

Ma a un certo punto Pin non resiste più alla tentazione e si punta la pistola contro la tempia: è una cosa che dà le vertigini. Avanti, fino a toccare la pelle e sentire il freddo del ferro. Si potrebbe posare il dito sul grilletto, adesso: no, meglio premere la bocca della canna contro lo zigomo fino a farsi male, e sentire il cerchio di ferro con dentro il vuoto dove nascono gli spari. A staccare l’arma dalla tempia, di botto, forse il risucchio dell’aria farà esplodere un colpo: no, non esplode. Ora si può mettere la canna in bocca e sentire il sapore sotto la lingua. Poi, cosa più paurosa di tutte, portarla agli occhi e guardarci dentro, nella canna buia che sembra fonda come un pozzo. Una volta Pin ha visto un ragazzo che s’era sparato in un occhio con un fucile da caccia, mentre lo portavano all’ospedale: aveva un gran grumo di sangue su mezza faccia, e l’altra mezza tutta puntini neri della polvere.

Ora Pin ha giocato con la pistola vera, ha giocato abbastanza: può darla a quegli uomini che gliel’hanno chiesta, non vede l’ora di darla. Quando non l’avrà più sarà come se non l’avesse rubata e il tedesco avrà un bell’andare in bestia con lui, lui lo potrà di nuovo prendere in giro.

Il primo impulso sarebbe di entrare nell’osteria di corsa, annunciando agli uomini: «Ce l’ho e non mi scappa!» tra l’entusiasmo di tutti che esclamano: «Ma no!» Poi gli sembra che sia più spiritoso chiedere loro: «Indovina cos’ho portato?» e farli spazientire un po’ prima di dirlo. Ma certo loro penseranno subito alla pistola, tanto vale entrare subito in argomento, e cominciare a raccontar loro la storia in dieci maniere differenti, facendo capire che è andata male, e quando loro son più sulle spine e non si raccapezzano più, posare la pistola sul tavolo e dire: «Guarda cosa mi son trovato in tasca», e vedere un po’ che faccia fanno.

Pin entra nell’osteria in punta di piedi, zitto; gli uomini parlottano sempre intorno a un tavolo, coi gomiti che sembra ci abbiano messo radici. Solo quell’uomo sconosciuto non c’è più e la sua sedia è vuota. Pin è dietro a loro e non se ne sono accorti: lui s’aspetta che tutt’a un tratto lo vedano e sussultino, facendogli piovere addosso una doccia di sguardi interrogativi. Ma nessuno si volta. Pin muove una sedia. Giraffa torce il collo, lo smiccia; poi torna a parlare piano.

– Begli uomini, – fa Pin.

Gli dànno un’occhiata.

– Brutto muso, – gli fa Giraffa, amichevole.

Nessuno dice più niente.

– Allora, – fa Pin.

– Allora, – dice Gian l’Autista, – cosa ci racconti di nuovo?

Pin è un po’ smontato.

– Ben, – fa il Francese, – sei giù di morale? Cantacene un po’ una, Pin.

«Qui, – pensa Pin, – fanno l’indiano anche loro, ma non stan più nella pelle dalla curiosità.»

– Alé, – dice. Ma non attacca: ha la gola appiccicata, secca, come quando si ha paura di piangere.

– Alé, – ripete. – Quale vi canto?

– Quale? – fa Miscèl.

E Giraffa: – Che barba, stasera, vorrei già essere a dormire.

Pin non ne può più del gioco: – E quell’uomo? – chiede.

– Chi?

– Quell’uomo seduto lì, prima?

– Ah, – dicono gli altri e scuotono il capo. Poi riprendono a parlottare tra loro.

– Io, – dice il Francese agli altri, – con questi del comitato non mi comprometterei troppo. Non me la sento d’andar di mezzo per la faccia loro.

– Ben, – dice Gian l’Autista. – Noi cosa s’è fatto? S’è detto: vedremo. Intanto è bene averci un collegamento con loro senza impegnarci, e prendere tempo. Io coi tedeschi poi ci ho un conto da regolare da quando s’era al fronte insieme, e se c’è da battermi, mi batto volentieri.

– Ben, – dice Miscèl. – Guarda che coi tedeschi non si scherza e non si sa come andrà a finire. Il comitato vuole che facciamo il gap; bene, noi facciamo il gap per conto nostro.

– Intanto, – fa Giraffa, – gli facciamo vedere che siamo dalla loro, e ci armiamo. Una volta che siamo armati…

Pin è armato: sente la pistola sotto la giacchetta e ci mette una mano sopra, come se gliela volessero portar via.

– Ne avete armi, voi? – chiede.

– Non ci stare a pensare, – fa il Giraffa. – Tu pensa a quella pistola del tedesco, siamo intesi.

Pin rizza gli orecchi; ora dirà: indovinate, dirà.

– Guarda un po’ di non perderla d’occhio, se ti capita sottomano…

Non è come Pin avrebbe voluto, perché importa loro tanto poco, adesso? Vorrebbe non aver ancora preso la pistola, vorrebbe tornar dal tedesco e rimetterla al suo posto.

– Per una pistola, – dice Miscèl, – non val la pena rischiare. Poi è un modello antiquato: pesante, s’inceppa.

– Intanto, – dice Giraffa, – bisogna far vedere al comitato che facciamo qualcosa, questo è importante –. E continuano a parlottare sottovoce.

Pin non sente più niente: ormai è sicuro che non darà loro la pistola; ha i lucciconi agli occhi e una rabbia gli stringe le gengive. I grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi, pure hanno anch’essi i loro giochi, sempre più seri, un gioco dentro l’altro che non si riesce mai a capire qual è il gioco vero. Prima sembrava che giocassero con l’uomo sconosciuto contro il tedesco, adesso da soli contro l’uomo sconosciuto, non ci si può mai fidare di quel che dicono.

– Ben, cantacene un po’ una, Pin, – dicono adesso, come se nulla fosse successo, come se non ci fosse stato un patto severissimo tra lui e loro, un patto consacrato da una parola misteriosa: gap.

– Alé, – fa Pin, con le labbra che gli tremano, pallido. Sa che non può cantare. Vorrebbe piangere, invece scoppia in uno strillo in i che schioda i timpani e finisce in uno scatenio d’improperi: – Bastardi, figli di quella cagna impestata di vostra madre vacca sporca lurida puttana!

Gli altri stanno a guardare cosa gli è preso, ma Pin è già scappato dall’osteria.

Fuori, il primo impulso sarebbe di cercare quell’uomo, quello che chiamano «comitato» e dargli la pistola: ora è l’unica persona che Pin sente di rispettare, anche se prima, così zitto e serio, gli ispirava diffidenza. Ma adesso è l’unico che potrebbe comprenderlo, ammirarlo per il suo gesto, e forse lo prenderebbe con sé a far la guerra contro i tedeschi, loro due soli, armati di pistola, appostati agli angoli delle vie. Ma Comitato chissà dov’è adesso: non si può chiedere in giro, nessuno l’aveva mai visto prima.

La pistola rimane a Pin e Pin non la darà a nessuno e non dirà a nessuno che l’ha. Solo farà capire che è dotato d’una forza terribile e tutti lo obbediranno. Chi ha una pistola vera dovrebbe fare dei giochi meravigliosi, dei giochi che nessun ragazzo ha fatto mai, ma Pin è un ragazzo che non sa giocare, che non sa prender parte ai giochi né dei grandi né dei ragazzi. Pure adesso Pin andrà lontano da tutti e giocherà tutto solo con la sua pistola, farà giochi che nessun altro conosce e nessun altro potrà mai sapere.

È notte: Pin ha scantonato fuori dal mucchio delle vecchie case, per le stradine che vanno tra orti e scoscendimenti ingombri d’immondizie. Nel buio le reti metalliche che cintano i semenzai gettano una maglia d’ombre sulla terra grigio-lunare; le galline ora dormono in fila sui pali dei pollai e le rane sono tutte fuor d’acqua e fanno cori per tutto il torrente, dalla sorgente alla foce. Chissà cosa succederebbe a sparare a una rana: forse resterebbe solo una bava verde schizzata su qualche pietra.

Pin va per i sentieri che girano intorno al torrente, posti scoscesi dove nessuno coltiva. Ci sono strade che lui solo conosce e che gli altri ragazzi si struggerebbero di sapere: un posto, c’è, dove fanno il nido i ragni, e solo Pin lo sa ed è l’unico in tutta la vallata, forse in tutta la regione: mai nessun ragazzo ha saputo di ragni che facciano il nido, tranne Pin.

Forse un giorno Pin troverà un amico, un vero amico, che capisca e che si possa capire, e allora a quello, solo a quello, mostrerà il posto delle tane dei ragni. È una scorciatoia sassosa che scende al torrente tra due pareti di terra ed erba. Lì, tra l’erba, i ragni fanno delle tane, dei tunnel tappezzati d’un cemento d’erba secca; ma la cosa meravigliosa è che le tane hanno una porticina, pure di quella poltiglia secca d’erba, una porticina tonda che si può aprire e chiudere.

Quando ha fatto qualche grosso dispetto e a furia di ridere il petto gli si è riempito d’una tristezza opaca, Pin vaga tutto solo per i sentieri del fossato e cerca il posto dove fanno la tana i ragni. Con uno stecco lungo si può arrivare fino in fondo ad una tana, e infilzare il ragno, un piccolo ragno nero, con dei disegnini grigi come sui vestiti d’estate delle vecchie bigotte.

Pin si diverte a disfare le porte delle tane e a infilzare i ragni sugli stecchi, anche a prendere i grilli e a guardarli da vicino sulla loro assurda faccia di cavallo verde, e poi tagliarli a pezzi e fare strani mosaici con le zampe su una pietra liscia.

Pin è cattivo con le bestie: sono esseri mostruosi e incomprensibili come gli uomini; dev’essere brutto essere una piccola bestia, cioè essere verde e fare la cacca a gocce, e aver sempre paura che venga un essere umano come lui, con una enorme faccia piena d’efelidi rosse e nere e con dita capaci di fare a pezzi i grilli.

Ora Pin è solo tra le tane dei ragni e la notte è infinita intorno a lui come il coro delle rane. È solo ma ha la pistola con sé, e ora si mette il cinturone con la fondina sul sedere come il tedesco; solo che il tedesco è grasso e a Pin il cinturone può stare a tracolla, come le bandoliere di quei guerrieri che si vedono nei cinema. Adesso si può estrarre la pistola con un grande gesto come si snudasse una spada, e dire anche: «All’assalto, miei prodi!» come fanno i ragazzi quando giocano ai pirati. Ma non si sa che gusto ci provino quei mocciosi a dire e a fare quelle cose: Pin dopo aver fatto qualche salto per il prato, con la pistola puntata, mirando alle ombre dei ceppi d’olivo, s’è già annoiato e non sa più cosa fare dell’arma.

I ragni sotterranei in quel momento rodono vermi o si accoppiano i maschi con le femmine emettendo fili di bava: sono esseri schifosi come gli uomini, e Pin infila la canna della pistola nell’imboccatura della tana con una voglia di ucciderli. Chissà cosa succederebbe se partisse un colpo, le case sono distanti e nessuno capirebbe da dove viene. Poi spesso i tedeschi e quelli della milizia sparano la notte addosso a chi gira nel coprifuoco.

Pin ha il dito sul grilletto, con la pistola puntata nella tana di un ragno: resistere alla voglia di schiacciare il grilletto è difficile, ma certo la pistola è in sicurezza e Pin non sa come si toglie.

A un tratto lo sparo parte così d’improvviso che Pin non se n’è nemmeno accorto d’aver schiacciato: la pistola fa un balzo indietro nella sua mano, fumante e tutta sporca di terra. Il tunnel della tana è crollato, sopra ci scende una piccola frana di terriccio e l’erba intorno è strinata.

Pin è preso da spavento prima, e poi da gioia: tutto è stato così bello e l’odore della polvere è così buono. Ma la cosa che lo spaventa davvero è che le rane tacciono d’improvviso, e non si sente più niente come se quello sparo avesse ucciso tutta la terra. Poi una rana, molto distante, ricomincia a cantare, e poi un’altra più vicina, e altre più vicine ancora, finché il coro riprende e a Pin sembra gridino più forte, molto più forte di prima. E dalle case un cane abbaia e una donna si mette a chiamare dalla finestra. Pin non sparerà più perché quei silenzi e quei rumori gli fanno paura. Però un’altra notte tornerà e non ci sarà nulla che potrà spaventarlo e allora sparerà tutti i colpi della pistola anche contro i pipistrelli e i gatti che girano a quell’ora intorno ai pollai.

Ora bisogna trovare un posto dove nascondere la pistola: il cavo d’un albero d’ulivo; o meglio: sotterrarla, o meglio ancora scavare una nicchia nella parete erbosa dove sono i nidi di ragno e coprire tutto con terriccio ed erba. Pin scava con le unghie in un punto dove il terriccio è già tutto corroso dalle fitte gallerie dei ragni, ci mette dentro la pistola nella fondina sfilata dal cinturone, e copre tutto con terriccio ed erba, e pezzi di parete di tana, biascicati dalle bocche dei ragni. Poi mette delle pietre in modo che lui solo possa riconoscere il posto, e va via frustando i cespugli con la cinghia del cinturone. La via del ritorno è per i beudi, i piccoli canali sopra il fossato con una stretta linea di pietre per camminarci.

Pin andando trascina la coda del cinturone nell’acqua della cunetta e fischia per non sentire quel gracidio di rane che sembra s’amplifichi di momento in momento.

Poi ci sono gli orti e le immondizie e le case: e arrivando lì Pin sente delle voci non italiane che parlano. C’è il coprifuoco ma lui spesso gira lo stesso di notte perché è un bambino e le pattuglie non gli dicono niente. Ma Pin questa volta ha paura perché forse quei tedeschi sono lì a cercare chi ha sparato. Vengono verso di lui e Pin vorrebbe scappare, ma quelli già gli gridano qualcosa e lo raggiungono. Pin s’è rattrappito in un gesto di difesa con la cinghia del cinturone come una frusta. Ma ecco che i tedeschi guardano proprio la cinghia del cinturone, vogliono quella; e tutt’a un tratto lo prendono per la collottola e lo portano via. Pin dice moltissime cose: preghiere, lamenti, insulti, ma i tedeschi non capiscono nulla; sono peggio, molto peggio delle guardie municipali.

Nel vicolo ci sono addirittura delle pattuglie tedesche e fasciste armate, e della gente presa ed arrestata, anche Miscèl il Francese. Pin viene fatto passare in mezzo salendo per il vicolo. C’è buio; solo in cima ai gradini c’è un punto illuminato da un lampione guercio per l’oscuramento.

Alla luce del lampione guercio, in cima al carrugio, Pin vede il marinaio con la grassa faccia imbestialita che punta un dito contro di lui.